Daniele Toffolo
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Hammond plays Bach: benvenuto, sacrilegio!

di Paolo Veronesi

Suonare Bach all’organo Hammond? A oltre sessant’anni dal no secco della Sacra Congregazione dei Riti (Curia Romana) all’impiego dell’organo elettromagnetico in chiesa (vedi articolo del sottoscritto su Arte organistica e organaria, luglio-settembre 2008)? In spregio a qualsiasi elementare considerazione di ordine filologico? Con uno strumento che fu moderno all’epoca sua, tra il 1935 e il 1975, e nell’ultimo ventennio di vita non era neanche più tanto moderno, e da quasi quarant’anni non viene più fabbricato (anche se sono centinaia di migliaia quelli che, sparsi per il mondo, continuano a metterci sopra le mani)? Che fa, Daniele Toffolo organista da Sesto al Reghena provincia di Pordenone (la Mitteleuropa de noantri), quarantenne onnivoro che si divide tra insegnamento, attività concertistica, accompagnamento di cori e solisti, servizio organistico nelle chiese, composizione, progettazione organaria, partecipazione a commissioni di settore e di tutela e intanto, non pago, strizza l’occhio al jazz? Pensa di riesumare il vezzo primi anni ’70 del barocco con gli strumenti elettrici ed elettronici di allora, richiamandosi magari al Walter/Wendy Carlos di Switched on Bach, il disco delle partite e delle suite rifatte con il moog e le sovraincisioni? Si sentiva il bisogno d’un repechage del genere? Oppure Toffolo vuole profittare della moda delle “contaminazioni” per muovere un po’ d’aria attorno a sé? Minestra riscaldata, verrebbe da dire per un verso. Per l’altro verso, quello del rispetto dovuto a Bach e alla Musica con la maiuscola, quale improntitudine!

E con ciò abbiamo dato voce e pasto al Baal della pedanteria e dell’accademia, al Beckmesser di turno (prosperavano anche ai tempi di Wagner, per la verità non sono mai mancati), alla sua malignità paludata di ragioni più o meno scientifiche e di devozione all’arte grande e dunque intangibile. Vedremo quanto inconsistenti si rivelino, presto e facilmente, quelle obiezioni. Avendo detto ciò che si può dire, in linea di principio, contro Hammond plays Bach di Daniele Toffolo, possiamo cominciare a vedere da vicino questo lavoro. In linea di principio è scritto in corsivo per sottolineare un fatto importante: chi storce il naso in casi come questo, lo fa sempre muovendo da assunti generali. Tutto cambia, invece, quando si entra nella carne delle cose. L’approccio migliore è quello del marziano che scende sulla terra per la prima volta: ignaro di storia, presupposti, scuole di pensiero, divisioni, polemiche, contempla ciò che vede e sente senza condizionamenti, forte di mente acuta, lunghe orecchie e ottima vista. Se inserisco nel lettore il cd di Toffolo e faccio il marziano – se cioè mi libero da ogni preoccupazione, pregiudizio, tema di andar contro l’opinione che immagino prevalente – sento in primo luogo che Bach all’Hammond suona bene, molto bene, in modo – oso dire – organisticamente pertinente. Toffolo, tra l’altro, fa un grande e raffinato lavoro nella costruzione dei registri con le formanti armoniche dell’Hammond. Lo so che è un Hammond, lo sento: conosco da lunga pezza il grosso aggeggio col motore dentro, pieno di valvole e altre suppellettili paleo-elettroniche, ne riconosco l’odore a distanza. Ma diamine, quell’orologiaio di Chicago, Laurens Hammond, è stato un genio e l’ha pensata come meglio non si può: la sostanza sonora organistica c’è tutta; e quando sotto il Plenum barrisce il 32’, sfido chiunque a sostenere che “non sembra un organo”. La seconda percezione che mi arriva è un’insolita facilità nel rappresentarmi mentalmente la struttura e l’ordito dei pezzi bachiani: seguo le linee del contrappunto senza sforzo, le “vedo” e ne apprezzo appieno il gioco mirabile. Come mai prima d’ora m’era avvenuto all’ascolto.

Hammond, una voce “immediata”

Proprio da quest’ultimo aspetto muove il lavoro di Toffolo, che ha fatto estrema attenzione a una caratteristica del suono Hammond: l’immediatezza d’emissione. Nell’organo a canne l’emissione, la messa a regime dell’aria nei corpi sonori, è più o meno lenta (più d’una, com’è noto, le variabili in gioco: tipologia della canna, epoca di costruzione, materiali, intonazione, eventuali artifici presso la bocca), mai immediata come nell’ “elettrofono”, per citare l’infastidita dicitura di Corrado Moretti. Come nell’organo classico si apprezzano transitori d’attacco: non lo “sputo” della canna ma il keyclick, il rumore dovuto ai contatti sotto tasti e pedali. Come nell’organo a canne – beninteso, a trasmissione meccanica – il transitorio è sensibile al tocco dell’esecutore. Ma tutto arriva con una subitaneità, una freschezza, un nitore e dunque uno spicco ignoti all’aerofono. E’ un fatto tecnico, banale se vogliamo e senz’altro casuale (Laurens Hammond, l’inventore, voleva emulare il più possibile l’organo a canne) ma cambia la prospettiva. In pratica – lo diciamo con approssimazione ma non più di tanto – si tratta di avere sotto le mani un suono essenzialmente organistico con l’immediatezza d’emissione di un clavicembalo. Con buona pace dell’accademia si apre un universo. Toffolo se n’è reso conto e ci ha preso gusto, scoprendo subito come trarre partito dalla condizione tecnica di partenza: complice il suo Hammond RT3 (la versione liturgica del B3 / C3 / A100, con pedaliera concavo-radiale completa e suoni aggiuntivi per la pedaliera da 32’ a 1’), ha elaborato un legato-staccato che sta realmente a metà strada tra approccio organistico e clavicembalistico. Forte di questa inedita modalità esecutiva, e della possibilità di dosarla accortamente grazie a una notevole sensibilità delle dita (e grazie al singolare carattere delle tastiere Hammond che, quanto articolano e staccano, altrettanto impastano e arrotondano i passaggi), Toffolo ha portato la chiarezza del fraseggio a livelli inusuali. Basta sentire le variazioni “violinistiche” della Toccata e Fuga in re minore, e quelle dei tempi veloci del Concerto in la minore trascritto da Vivaldi, per apprezzare appieno l’evidenza di linea di arpeggi e scale. Appunto un’evidenza di fraseggio che ricorda il cembalo ma con i suoni dell’organo e con la rotondità dell’organo e della sua voce sostenuta. La febbre della scoperta è evidente negli abbellimenti: Toffolo si compiace – il fatto è incontrovertibile, se si ascolta con attenzione – di tanta forza immediata d’emissione per cui trilli, mordenti, gruppetti suonano crespi, moltiplicati nella scansione veloce e irta delle note. Qualche volta forse esagera, tenendo troppo un trillo o “strappando” un passaggio veloce facendone quasi un glissando (succede una volta sola e non vi diciamo quale…): l’ebbrezza della scoperta, appunto, può prendere la mano. Ma l’organista non si ferma alle gioie del keyclick e della nota che zampilla senza latenze. Usa – con prudenza – l’arma finale dell’arsenale Hammond: la percussione. E non pensiamo tanto al godibile accompagnamento arpeggiato a mo’ di vibrafono nella trascrizione del Largo dal Concerto BWV 1056, in cui l’attacco percussivo “sulla seconda armonica” (4’) evoca apertamente un pizzicato d’archi. Pensiamo soprattutto alla quarta tra le Partite diverse sopra “O Gott, du frommer Gott”. E al Vivace dalla Triosonata n.3, un’interpretazione lodevolmente singolare d’un pezzo mirabile, come vedremo poco oltre. Qui la percussione in attacco di nota è usata come una sorta di super-transitorio: il che proietta felicemente sulla logica organistica classica l’effetto tipico dello strumento elettromagnetico; e, al tempo stesso, di quest’ultimo rispetta la tradizione che ha assegnato a quest’effetto – in piena antitesi rispetto alle intenzioni dell’inventore-costruttore – la funzione di attacco e di articolazione del suono lungo, non di sonorità indipendente e imitativa di strumenti a corda percossa (tre nomi su tutti: il jazzista-bluesman Jimmy Smith, il tastierista rock Keith Emerson, l’organista rock-blues Brian Auger).

Approccio sperimentale e “didattico”: il mezzo favorisce il messaggio

Sotto il profilo fin qui accennato – e sempre con buona pace dei puristi-filologi – l’organo Hammond si rivela, nel lavoro di Toffolo, come un prezioso ausilio didattico: come s’è visto, restituisce all’ascoltatore la piena udibilità della costruzione sonora, masse armoniche e soprattutto linee contrappuntistiche. Con un fraseggio, oltre tutto, dal carattere deliziosamente e paradossalmente “barocco”. Ecco perché l’obiezione accademica non ha senso: possiamo immaginare che Bach, sistematico sperimentatore di strutture formali della musica e dei mezzi sonori per renderne udibile il pensiero, avendo tra le mani l’RT3 di Toffolo avrebbe scosso il capo e voltato le spalle? Soffermiamoci un istante sulla scena: Johann Sebastian, artigiano solitario e voracemente curioso, alchimista della bottega dei suoni, che non accende il generatore dell’Hammond, si rifiuta scocciato di metterci le mani sopra e proclama: «I miei Preludi e Fughe siano eseguiti solo con organi Silbermann o affini, anche fra tre secoli, perché li ho pensati esclusivamente in funzione delle argentee sonorità dell’organo della Germania del Nord. E mi raccomando, niente pedaliere concavo-radiali se a qualcuno verrà mai in mente di costruirle: solo pedaliere dritte». Ridicolo anche solo pensarlo, considerato Bach e chi era; e considerato pure che parliamo d’un’epoca in cui si scriveva, ancora e spesso, genericamente per Klavier, per tastiera, senza imporre l’uso dell’organo, del cembalo o magari del fortepiano. Non abbiamo dubbi: al cospetto del ligneo “barcone” l’uomo di Eisenach (preventivamente istruito sull’elettricità, altrimenti sarebbe stata sì fuga, ma a gambe levate…) avrebbe subito dato corrente, estratto i drawbars, testato il suono improvvisando, sgranato i piccoli occhi fessurati e poi si sarebbe rivolto a Toffolo: “Bitte, mi chiuda nello studio e butti la chiave”.

Sempre restando nella parte del marziano, ascoltando e riascoltando il disco di Toffolo mi rendo conto che la peculiarità dell’emissione non si limita a produrre maggiore intelligibilità. Inevitabilmente la voce e l’attacco dell’RT3 s’incrociano con le attitudini personali dell’esecutore: Toffolo, intercettata la possibilità di toccare e fraseggiare con voce d’organo e prontezza di cembalo, la impiega per accentuare i tratti del suo stile, del suo approccio a Bach, in definitiva per dare più intensità all’incontro con i testi bachiani. La veloce, limpida articolazione del fraseggio ha ricadute su ogni aspetto. In primis l’inclinazione di Toffolo, organista con marcati interessi per la letteratura romantica, a scompigliare lievemente l’agogica da metronomo con cui in genere (e rispettabilmente, aggiungiamo) si tende da decenni a suonare Bach. Con estrema prudenza e arte del dosaggio, anche in questo caso: rubati e sforzando, anticipi e ritardi vagamente “jazzistici” muovono l’esecuzione là dove possono illuminare la carica “affettiva” del discorso bachiano; e dove non è troppo azzardato ritenere che la stessa prassi esecutiva antica, sull’onda appunto d’una consolidata “teoria degli affetti”, tendesse a indulgere in accennati scostamenti dalla misura ritmica esatta. L’immediatezza d’emissione, con relativo stacco “clavicembalistico” tra le note, favorisce questo approccio perché, per contrasto, lo mette a nudo. E’ semplice: se non c’è latenza di pronuncia, quando ritardi o anticipi manca la compensazione dovuta all’impercettibile coda ex ante o ex post, dunque lo slittamento agogico si fa più marcato. Ecco dunque la resa a tutto tondo del “pomposo” nel pezzo d’apertura del disco, il Preludio in do maggiore BWV 547. Qui, come altrove, Toffolo gioca sul contrasto tra sforzando e appoggi sui climax e le “anafore” (ripetizioni) tematiche, per un verso, e la precisa ritmica ternaria delle sequenze cadenzali e risolutive. Discorso analogo, mutatis mutandis, per il seguente celeberrimo corale Wachet auf, ruft uns die Stimme, dall’andamento veramente processionale; dove, tra l’altro, brilla l’ormai abbondantemente citata chiarezza d’emissione dell’Hammond nel rendere palese – qui in modo davvero magico – il miracolo bachiano dell’inserzione del tema del corale nel tessuto della voce superiore: il gioco di linee è d’un’evidenza, d’una plasticità disarmanti. Più “didattico” di così… Similmente, ma in diversa chiave espressiva, la franca emissione dell’RT3 consente a Toffolo di fare dell’Aria sulla IV corda un foglio d’album immerso in un raccoglimento crepuscolare e rarefatto (e diciamolo: filologia o non filologia, la pagina sembra chiedere – sommessamente – d’essere interpretata così).

Bach artigiano, matematico, eroico

Della strepitosa chiarezza con cui l’accoppiata Hammond-Toffolo fa arrivare all’ascoltatore le sequenze  veloci (scale, arpeggi…) abbiamo detto, ma è d’obbligo qui ricordare l’ultima traccia del disco, le già citate Partite diverse sopra “O Gott, du frommer Gott”: se le trine del lessico barocco-bachiano sono in forte evidenza in questo disco – per le ragioni che abbiamo visto – nelle grandi costruzioni a polifonia complessa, figurarsi cosa accade quando l’ordito si asciuga in essenziali strutture a due voci: il nitore è perfino esorbitante e Toffolo, qui, lo asseconda istintivamente riassumendo, dopo tanto rubare e appoggiare, la metrica più stretta. Si moltiplica così la sensazione di ordine matematico, e al tempo stesso di “meccanica artigianale” da boîte-à-musique, che spesso promana dalla letteratura strumentale germanica del ‘600-‘700 e sommamente da quella bachiana.

 

C’è poi nel disco, forse ancor più in altorilievo, la dimensione “eroica” e drammatica di Bach. L’abbiamo lasciata per ultima perché è il sale dell’interpretazione bachiana del filo-romantico Toffolo, nonché del profitto che si ottiene quando Hammond plays Bach (e quando Toffolo plays Hammond, sfruttandone i caratteri di emissione e voce). E anche, innegabilmente, il sale e il pepe di Bach autore per organo, figlio di Buxtehude e dello stile toccatistico nord-teutonico, infuocato, capriccioso e incalzante. Dimensione che permea totalmente la nona traccia del disco, il terzo tempo (Vivace) della Triosonata in re minore BWV 527. Per questo brano, una delle cose più emozionanti del lavoro discografico di Toffolo, possiamo fare il confronto con un’esecuzione gemella, all’organo Hammond, che chiunque può trovare su YouTube digitando nel motore di ricerca “hammond domein”. Il pezzo è qui suonato su un bell’A100 da Rein De Jong, bravissimo e versatile musicista olandese. De Jong sceglie un tempo molto veloce e “rabbioso” – dice lui – per compensare il fatto che la tonalità di re minore suona un po’ “sorda” su un organo Hammond. Forse esagera ma non ha tutti i torti: su molte componenti armoniche (ossia sulle diverse altezze dell’estensione reale) i “re” dell’elettromagnetico sono un po’ meno tonici di altre note. Differenze impercettibili che però contribuiscono al colore generale. L’esecuzione è impeccabile, ammirevole la padronanza del fraseggio con il valore metronomico così elevato, da manuale gli abbellimenti. La metrica è esatta e fluida, dall’ostinato del pedale alle due voci superiori. E’ il Bach geniale artigiano tedesco, con la meccanica dell’orologio a cucù in testa. Il Bach delle sequenze trinate e “violinistiche” che pure Toffolo, come abbiamo visto, esalta là dove il loro spirito è lo spirito guida del testo. Vediamo cosa fa invece qui il friulano: sceglie un tempo più moderato (nella norma statistica delle esecuzioni del brano in questione) e lascia slittare in avanti e indietro gli accenti, enfatizzando la tensione agogica e melodico-armonica insita in questo capolavoro. Fa impennare la frase allungando i tempi forti e stringendo i deboli, marcando così il senso di inesorabilità e marcia in avanti. Il magnifico “terzinato” bachiano (ci si passi il termine jazzistico), lo stesso che giganteggia nella Passacaglia in do minore, è qui pura baldanza. E’ il Bach, sembrerebbe, che manda a quel paese i canonici che lo stipendiano e scappa a Lubecca per andare a sentire Buxtehude: i trilli eseguiti da Toffolo, crepitanti e rocamboleschi a paragone con quelli nonchalanceurs di De Jong, quasi evocano lo sberleffo del giovane organista di Eisenach ai datori di lavoro. Una giovanile aria di sfida sottesa però dalla fatica assidua della marcia, raccontata dal pedale che procede sempre in lieve ritardo. Questo Vivace nelle mani di Toffolo potrebbe servire – ci scusiamo con lui per l’irriverenza – da raffinata colonna sonora per la scena di Don Chisciotte che avanza nella meseta iberica al culmine dei sogni di conquista. Si può concordare con l’esecutore e il suo approccio oppure dissentire; ma di sicuro la prova non lascia indifferenti: un Vivace tanto vivace non si ascolta tutti i giorni. E se dentro ci sono la libertà di spirito e la cifra antiaccademica di Toffolo, grande è il contributo dello strumento con la sua freschezza di emissione: l’organista se ne serve a piene mani per tirare la corda e muovere il flusso senza compromettere – anzi esaltando – l’evidenza del gioco di specchi, la rincorsa del materiale tematico tra una voce e l’altra. Toffolo ritiene che solo con l’Hammond si possa fare tanto e probabilmente ha ragione. Qui, davvero, Toffolo and Hammond play Bach together.

Bach e leslie, perché? Il “caso” della BWV 565

Dulcis in fundo, lo sberleffo degli sberleffi: non di Bach ai canonici ma di Toffolo ai puristi. Un gesto che sarebbe piaciuto a Glenn Gould. Il fattaccio si verifica, neanche a dirlo, nella Toccata e fuga in re minore BWV 565 ovvero nell’icona universale della musica d’organo. Nell’assieme il pezzo fonde, nell’esecuzione di Toffolo, tutti i caratteri fin qui enunciati: dal pathos incalzante che osiamo definire “funky” per la tensione che esprime (vedi l’effetto precipizio dell’incipit: mordente veloce, sospensione, scala discendente in accelerando, breve pausa, tonfo di peso sulla tonica) alla chiarezza quasi “croccante” del contrappunto e delle variazioni nella Fuga; dalla sapiente distribuzione di rubati e altri “esci-e-rientra” metrici al contrasto tra un sanguigno senso di impromptu e le spirali svelte e regolari del moto perpetuo; tra il movimento in avanti, inesorabile e teatrale, e la meccanica celeste tradotta in danza di automi. Ma a Toffolo tutto ciò non basta per sentirsi soddisfatto e la combina grossa: più volte nella Toccata e poi nella cadenza finale della Fuga, là dove la tensione si risolve in drammatiche masse accordali, il friulano non resiste e manda il rotore e la tromba del leslie in fast, spostando l’apposito selettore sulla posizione Tremolo. Roba da rock progressivo anni ’70, quando si facevano le parafrasi pseudo-barocche con l’Hammond e il leslie in chiave pop? Provocazione intenzionale? La seconda c’è tutta, senza dubbio. Ma proviamo anche stavolta a entrare nella parte del marziano: via la memoria dell’estetica musicale delle rock band, via il birignao che se ne alimenta (“il tremolo del leslie suonando Bach? Noooo… Ma è Bach o sono i Pink Floyd?”). Il marziano non sa un’acca dell’ultimo mezzo secolo di costumi musicali terrestri, lui sente per la prima volta il suono mosso dall’amplificatore rotativo e non lo associa a nulla, non gli vengono in mente né i neri del gospel né i capelloni sul palco. E che fa, il leslie? Appunto: muove il suono. La vera domanda è dunque: ha senso muovere a tratti il suono in questo modo, rendendolo pulsante, nella Toccata e fuga in re minore? Serve a qualcosa? Esalta il carattere drammatico e teatrale di cui sopra oppure no? In definitiva: posto che sia comunque un irriguardoso eccesso, e che determini una dilatazione sonora e un contrasto non previsti nel testo, quella dilatazione e quel contrasto fanno emergere qualcosa dal testo medesimo? L’ascoltatore si risponda come preferisce, ma nessuno dubiti della marziana legittimità di queste domande.

Il vero obiettivo: interrogare Bach

Perché in fondo il senso dell’operazione di Toffolo è questo: interrogare Bach, andare in cerca come un rabdomante di eventuali nuclei di energia latente nella sua musica, ancora non portati alla luce o illuminati solo in parte. Ossia applicare all’esecuzione della musica bachiana l’atteggiamento di Bach verso la musica, eminentemente e caparbiamente esplorativo. Toffolo si serve a questo fine di un mezzo inusuale, considerato improprio dalla filologia; ma proprio la virtuosa inusualità del mezzo, lo scostamento dalle prassi legate all’impiego dello strumento canonico, garantiscono la fattibilità di un percorso di ricerca e scoperta. Toffolo non intende, rispetto alla giurisprudenza organistica e alle sue consuetudini, né “fare un’altra cosa” né tentare di riprodurle con un mezzo sonoro eterodosso. Piuttosto, usa l’organo Hammond come uno strumento ottico che instaura nuove prospettive sull’oggetto osservato e lo ridefinisce. E tanti saluti a quello che Roland Barthes chiamava “spirito della lettera”. Per cui, posto che Hammond plays Bach di Daniele Toffolo sia un sacrilegio, possiamo serenamente accoglierlo con un convinto benvenuto. E poi gustare questo Bach rigoroso e pieno di estro, giocoso e incalzante, raccontato in un disco opinabile quanto si vuole (e pensiamo che Toffolo l’abbia voluto proprio così, opinabile) ma dall’anima forte e precisa.

E quanto all’Hammond si opini pure, ma non senza porsi una domanda: meglio l’Hammond, per Bach, o un organo italiano industriale a trasmissione elettrica degli anni dai ’20 ai ’70 del XX secolo? Chi scrive ha visto più volte solisti d’Oltralpe, francesi austriaci e tedeschi, alzarsi dalla panca a fine concerto imprecando contro chi aveva potuto concepire strumenti del genere, che trasformano la trama contrappuntistica in un informe bolo sonoro. Se si esegue ancora Bach su quegli organi, sarà da considerarsi illecito e dissacrante farlo su un Hammond RT3 dalla voce immediata e nitida? All’onestà intellettuale dei filologi, di chiunque ami Bach e sia disposto a porsi la questione con marziana castità di mente, l’onere della risposta.